martedì 4 dicembre 2012

Le ragioni dell'altro

Le ragioni dell’altro nel conflitto israelo-palestinese 

Luciano Trincia - 4 December 2012  
 
Se fossi il padre di un bambino palestinese di Ramallah avrei ancora negli occhi le immagini dei bombardamenti su Gaza di due settimane fa. Penserei alla mia gente, costretta per secoli dai Turchi, affidata senza possibilità di replica al Mandato britannico sulla Palestina, illusa dalle promesse fatte agli Arabi dalle potenze coloniali di un riconoscimento all'autodeterminazione e all'indipendenza in cambio della loro partecipazione agli sforzi bellici anti-ottomani. Mi tornerebbe alla mente il massacro del villaggio arabo di Deir Yassin del 9 aprile 1948 ad opera di membri del gruppo sionista “Irgun Zvai Leumi” del futuro Primo ministro israeliano Menachem Begin. Addosserei la responsabilità del fallimento della transizione proposta dalla potenza mandataria cui era stato assegnato il governo della regione a gruppi estremisti come “Lohamei Herut Israel”, quelli che i britannici chiamavano la “Banda Stern”, ai loro attentati, alla loro violenza terrorista. Farei risalire alla Guerra dei Sei Giorni del 1967 la definitiva negazione del diritto degli Arabi di Palestina a vivere nel proprio Stato. Condannerei la pulizia etnica degli Arabi palestinesi e l’allontanamento forzato dei profughi dalle loro case, dai loro villaggi sotto la spinta dei carri armati Magach israeliani.  Se fossi il padre di un bambino palestinese di Ramallah penserei alle pietre della prima Intifada e ai Tavor TAR 21, i moderni fucili d’assalto delle Forze di Difesa Israeliane. Griderei forte al mondo che nei territori occupati, a Gaza e in Cisgiordania, Israele non ha mai concordato nulla con la popolazione araba, che la politica colonica è sempre stata imposta dalla forza militare, che nei territori Israele ha operato con il suo servizio di intelligence militare (Aman) per definire gli obiettivi delle “ticking bombs” mirate contro i capi del mio popolo. Avrei sempre in mente il terrore dell’operazione “Piombo fuso” del dicembre 2008, quella massiccia offensiva aerea e terrestre israeliana costata in poche settimane oltre 1300 morti fra i palestinesi, a fronte di 28 vittime fra i civili israeliani in otto anni. Additerei come unici responsabili della rottura dei negoziati di pace fra Israeliani e Palestinesi nel settembre 2010 il premier Benjamin Netanyahu e il suo ministro degli esteri Avigdor Lieberman, da sempre contrari al processo di pace avviato a Oslo. Se fossi il padre di un bambino palestinese di Ramallah direi a mio figlio che la condizione di vita attuale dei Palestinesi nei territori occupati, esuli e profughi nella loro stessa terra sotto un’occupazione militare straniera, è intollerabile agli occhi di qualunque persona che conosca la realtà di questa terra e abbia un minimo di obiettività.  Se fossi il padre di una bambina israeliana di Tel Aviv vivrei nel terrore ogni volta che mia figlia sale su un autobus. Porterei sulla pelle la storia del mio popolo, ovunque segnato da diaspore e discriminazioni, eterna minoranza in Stati non propri, colpito dai pogrom, decimato dall’Olocausto. Non dormirei la notte pensando ai lanci indiscriminati di razzi Qassam contro le città di Sderot e Ashkelon da parte del Movimento della resistenza islamica Hamas di Ismail Haniyeh e Salam Fayyad. Sarei convinto che oggi Abu Mazen non sia capace di controllare neppure la Cisgiordania e che i Palestinesi, lasciati a sé stessi, non siano in grado di governare un proprio Stato indipendente. Vedrei la vittoria elettorale di Hamas e la sua presa di potere a Gaza dopo il ritiro israeliano come un minaccioso anticipo di quanto potrebbe accadere su scala più vasta in caso di un nostro ritiro dalla Cisgiordania. Urlerei al mondo che adesso a Gaza governa un Movimento come Hamas, che non vuole affatto uno "Stato palestinese", ma semplicemente la cancellazione di Israele. Ricorderei che fu il rifiuto degli Arabi al Piano di partizione della Palestina nel novembre 1947 a scatenare prima le violenze e poi la guerra arabo-israeliana del 1948 e che in conseguenza di quel conflitto 600.000 ebrei furono espulsi dai Paesi arabi confinanti.  Se fossi il padre di una bambina israeliana di Tel Aviv riterrei prioritario il diritto alla sicurezza del mio Paese, assediato dalle frange palestinesi più radicali appoggiate dall’Iran di Mahmud Ahmadinejad. Osserverei preoccupato il crescendo di dichiarazioni minacciose contro Israele, alimentate dalla seconda Intifada del 2000, dal sostegno siriano e iraniano a Hezbollah e a Hamas, dalla guerra in Libano dell’estate 2006, dall’allarme suscitato dal programma nucleare dell’Iran. Vedrei crescere e allargarsi le minacce militari e quelle terroristiche contro l’ebraicità d’Israele, in una regione come quella mediorientale che dal marzo 2011, con la crisi siriana, è diventata una vera e proprio polveriera sul punto di esplodere. Ricorderei che il Movimento della resistenza islamica Hamas si è sempre schierato contro il processo di pace avviato con gli Accordi di Oslo del 1993 e che oggi viene considerato ufficialmente un’organizzazione terroristica non solo da Israele, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea e un potenziale nemico alla stabilità dell’intera regione. Sarei favorevole alla costruzione di nuovi insediamenti nei territori a Est di Gerusalemme e in Cisgiordania annunciata dal governo del mio Paese dopo la risoluzione Onu del 29 novembre scorso e giudicherei i nostri insediamenti e la barriera di sicurezza l’unico mezzo sicuro per impedire infiltrazioni terroristiche in Israele e per proteggere i coloni. Se fossi il padre di una bambina israeliana di Tel Aviv chiederei al mio governo di adottare tutte le misure necessarie per garantire le due priorità che David Ben Gurion aveva assegnato allo Stato ebraico, la sicurezza interna e la pace con i vicini.  Se fossi un uomo, poco importa se arabo o israeliano, che guarda a un futuro di coesistenza pacifica e vuole disegnare un orizzonte di pace dove far crescere i propri figli, osserverei con occhi diversi la storia rispettiva di sofferenze e ingiustizie patite e avrei ben presente che queste risalgono indietro nei secoli da ambo le parti. Rigetterei ogni forma di fanatismo e coltiverei la speranza che da una parte e dall’altra emergano quanto prima uomini politici che riescano a conquistare i cuori e le menti dei rispettivi popoli e degli avversari a un credibile progetto di pace e di collaborazione, indispensabile per condividere un territorio limitato con scarse risorse naturali. Leggerei i giornali del mio paese, ma proverei a confrontarmi anche con le notizie diffuse da altri organi di stampa, nella convinzione che il pluralismo mediatico offra un’immagine meno parziale della complessa realtà della regione dove vivo. Contrasterei però azioni di propaganda mediatica elusiva o volutamente ingannevole, intentate dalla mia parte o dall’altra sulle sofferenze di vittime innocenti. Sarei disposto a ascoltare le ragioni dell’altro, senza per questo rinunciare alle mie, nella convinzione che le vittime, da qualsiasi parte vengano hanno la memoria lunga. Parlerei con chi la pensa come me, ma cercherei anche il dialogo e il confronto con chi ha opinioni diverse, al di fuori della cerchia ristretta di accoliti, militanti, affiliati, adepti nella quale mi muovo. Rafforzerei la determinazione a uscire da un passato di discriminazioni e persecuzioni reciproche, chiedendo ai responsabili del mio popolo, siano essi arabi o israeliani, di rilanciare immediatamente il processo di pace sul principio “Due popoli, due Stati”. Mi unirei a quanti, e sono tanti, sia a Tel Aviv che a Ramallah credono che costruire la pace significa rinunciare definitivamente a una visione unilaterale dei propri diritti, lungamente coltivata e continuamente alimentata dalla mobilitazione emotiva e propagandistica di un conflitto ormai più che sessantennale.  Se fossi un uomo, poco importa se arabo o israeliano, che guarda a un futuro di coesistenza pacifica cercherei di far comprendere alla mia gente che la vera discriminante passa all’interno dei due campi, delle due società e delle rispettive forze politiche, che il partito da prendere non è fra Israeliani e Palestinesi, ma fra chi in un campo e nell’altro lavora per la pace e chi opera, più o meno consapevolmente, per la continuazione del conflitto. Sarei convinto che i due Stati devono coesistere e rispettarsi senza affermare la priorità di uno Stato sull’altro, accettando da una parte l’impraticabilità del sogno biblico del “Grande Israele”, che si traduce in termini politici nel diritto storico-biblico a insediarsi ovunque in Eretz Israel, e rinunciando dall’altra all’obiettivo massimalista della negazione dell’altro e all’illusione di poter ribaltare la forza dell’avversario con una contrapposta violenza, confondendo così resistenza e terrorismo. Sarei consapevole che per rendere possibile l'impossibile occorre un salto di mentalità: una nuova generazione israeliana e palestinese educata alla convivenza, perché possa radicarsi un abito mentale diverso nei confronti dell’ex nemico. Perché, come sostiene Amos Oz, un conflitto comincia e finisce non sulla sommità delle colline, ma nei cuori e nella mente delle persone. Questo salto di mentalità può sembrare oggi un obiettivo lontano, difficile, ad alcuni forse illusorio. Ma se non si lavora per costruirlo soltanto perché non lo si crede possibile, di certo non si produrrà da solo. 

venerdì 19 ottobre 2012

Razzisti si nasce o si diventa?

Razzisti non si nasce, ma si diventa
(solo dopo i 14 anni)

Lo studio americano sui bambini: non vi è alcuna differenza nel cervello quando si incontrano persone diverse

di 

MILANO – Non nasciamo razzisti, né lo diventiamo nei nostri primi anni di vita. Anzi, da piccoli, davanti a persone dal colore della pelle diverso dal nostro, non abbiamo alcun sussulto, emozionale o razionale, e tantomeno avvertiamo paura, timore, rabbia o aggressività. A dimostrare che il razzismo non è nella nostra natura infantile ha lavorato un team di ricercatori in neuroscienze della University of California, sede di Los Angeles: come è accaduto in passato per studi di questo genere, ha usato lo strumento della risonanza magnetica per verificare quali cambiamenti intervenivano nell’area cerebrale di chi si è sottoposto al test. Questa ricerca si inserisce nel dibattito, molto acceso e datato, sulle origini del razzismo che negli anni ha visto confrontarsi almeno due teorie opposte: la prima che legava questo sentimento alla socializzazione, la seconda che invece tendeva a mostrare come la xenofobia sia innata in ognuno di noi.
BAMBINI DEL MONDO – E proprio a convertire questo secondo pensiero – che il razzismo sia dentro di noi – arriva la ricerca di Eva Telzer e di 3 colleghi della Ucla, appena pubblicata sul Journal of Cognitive Neuroscience. L’analisi ha riguardato 32 bambini americani, tra i 4 e i 16 anni di età. Tra loro variavano le origini razziali: ve ne erano con antenati europei, asiatici, africani. I giovani sono stati sottoposti a imaging a risonanza magnetica (MRI) nel momento in cui visionavano un catalogo fotografico, composto da immagini di persone dal colore della pelle uguale e poi differente dal loro.
NESSUN SUSSULTO – Davanti alle foto di persone diverse da sé, i bambini non hanno mostrato attività cerebrali diverse rispetto al normale. E questo è avvenuto per tutti i bambini, fino all’età dei 14 anni. In particolare, è stato analizzato il comportamento dell’amigdala, quell’area del cervello che fa da centro di integrazione ai processi neurologici superiori come le emozioni, per esempio regolando la paura. Nei casi analizzati dai ricercatori americani, questa parte cerebrale non subiva modifiche. Mentre in passato, altre ricerche sulla popolazione adulta avevano mostrato come i pazienti sottoposti a risonanza magnetica avessero sussulti e modifiche percettibili della stessa amigdala, motivo che aveva spinto a collegare il sentimento xenofobo alle proprie innate peculiarità personali.
DOPO I 14 – Dalla ricerca emergono comunque due dati interessanti: il primo è che dopo i 14 anni di età, invece, proprio come è avvenuto nelle ricerche passate sulla popolazione adulta, qualche variazione della amigdala esiste davanti al «diverso da sé», e la seconda è che, da questa età in avanti, cambiano completamente le reazioni a seconda della propria origine razziale e geografica. Infatti, i giovani che provenivano da famiglie miste, o con antenati di altre etnie, non mostravano alcun segno di razzismo (inteso proprio come il riconoscere qualcosa di altro da sé), mentre per chi proveniva da una razza precisa, senza incroci con etnie di altri Paesi, il vedere foto anche di persone dalle stesse origini causava un sentimento o un’emozione registrata dalla amigdala.

tratto da Corriere.it

lunedì 1 ottobre 2012

Farò del mio meglio...
Ciao mio caro Amico Shlomo
Mi manchi già
Francesca

martedì 26 giugno 2012

Un sorriso per Novi

"Qui abbiamo tutto, ci manca solo il sorriso" così ci hanno risposto le Mondine di Novi di Modena dopo l'ultimo terremoto che ha colpito anche la loro città. 
A quest' appello ha risposto un gruppo di associazioni di Rimini - e singoli cittadini - che ieri è andato a Novi a preparare un pranzo di solidarietà per le popolazioni vittime del sisma. 
Anpi di Rimini, Ass. Pompieri di Rimini, Comando prov. dei Pompieri, Aeroporto di Rimini e alcuni pescatori della città, aiutati da altri sostenitori, come i panifici Cupioli e Monaldini che hanno fornito il pane, Coop Adriatica per la nutella, Adria Web per il sostegno, Riviera Piada per la piadina, l'azienda agricola Agriverde di San Mauro Pascoli per l'insalata, hanno messo in tavola circa 600 coperti con i prodotti tipici della nostra terra e del nostro mare, per dare un segno di vicinanza e riportare il sorriso sui visi a noi amici!
Abbiamo portato il nostro pesce azzurro, la nostra piada e il nostro sangiovese per fare in modo che EmiliaRomagna sia senza trattino...


piada...

pulitura...

condimento...

e cottura dei sardoncini
stoccaggio dei prodotti

...

le tende del campo 'angelina'

le scarpette rosa di safra

safra, a rappresentare i tanti bimbi del campo
infine un regalo delle Mondine...




giovedì 21 giugno 2012

Cina 2012-Religion

Un altare con del cibo in ogni luogo pubblico

Isola di Lantau - il grande Budda seduto

Un budda su ogni cruscotto

Ex-voto (?)

Lucky cat
Ce n'è per tutti i gusti!

mercoledì 20 giugno 2012

martedì 12 giugno 2012

#Save194


Sembra, ogni volta, di dover ricominciare da capo. Facciamolo, allora, e partiamo da una domanda. Questa: “tutte le donne italiane possono liberamente decidere di diventare madri?”. La risposta è no.
Non possono farlo, non liberamente, e non nelle condizioni ottimali, le donne che ricorrono alla fecondazione artificiale, drammaticamente limitata dalla legge 40.
Non possono farlo le donne che scelgono, o si trovano costrette a scegliere, di non essere madri: nonostante questo diritto venga loro garantito da una legge dello Stato, la 194.
Quella legge è, con crescente protervia, posta sotto accusa dai movimenti pro life, che hanno più volte preannunciato (anche durante l’ultima marcia per la vita), di volerla sottoporre (di nuovo) a referendum.
L’articolo 4 di quella legge sarà all’esame della Corte Costituzionale - il prossimo 20 giugno - che dovrà esaminarne la legittimità, in quanto violerebbe ” gli articoli 2, (diritti inviolabili dell’uomo), 32 I Comma (tutela della salute) e rappresenta una possibile lesione del diritto alla vita dell’embrione, in quanto uomo in fieri”.
Inoltre,  quella legge è svuotata dal suo interno da anni. Secondo il Ministero della Salute sono obiettori sette medici su dieci (per inciso, i cattolici praticanti in Italia, secondo i dati Eurispes 2006, sono il 36,8%): in pratica, si è passati dal 58,7 per cento del 2005 al 70,7 per cento del 2009 per quanto riguarda i ginecologi, per gli anestesisti dal 45,7 per cento al 51,7 per cento e per il personale non medico dal 38,6 per cento al 44,4 per cento. Secondo la Laiga, l’associazione che riunisce i ginecologi a difesa della 194, i “no” dei medici arriverebbero quasi al 90% del totale, specie se ci si riferisce agli aborti dopo la dodicesima settimana. Nei sette ospedali romani che eseguono aborti terapeutici, i medici disponibili sono due; tre (su 60) al Secondo Policlinico di Napoli. Al Sud ci sono ospedali totalmente “obiettanti”. In altre zone la percentuale di chi rifiuta di interrompere la gravidanza sfiora l’80 per cento, come in Molise, Campania, Sicilia, Bolzano. Siamo sopra l’85% in Basilicata. Da un’inchiesta dell’Espresso di fine 2011, risulta che i 1.655, non obiettori hanno effettuato nel solo 2009, con le loro scarse forze, 118.579 interruzioni di gravidanza, con il risultato che più del 40% delle donne aspetta dalle due settimane a un mese per accedere all’intervento, e non è raro che si torni all’estero, alla clinica privata (o, per le immigrate soprattutto, alle mammane). Oppure, al mercato nero delle pillole abortive.

giovedì 26 aprile 2012

Anche questo è Rimini - 25aprile2012



Come mi è già successo altre volte in passato, il mio non essere 2.0, mi ha impedito di riprendere il regalo che il coro delle Mondine di Novi ci ha fatto ieri sera sulle scale di piazza Cavour dopo essersi rifocillate mentre si recavano al pullman per tornare a casa. Per fortuna internet è una miniera d'oro... per cui godetevi questa bellissima canzone!!!

martedì 10 aprile 2012

La bolla speculativa della bresaola

Ho fatto la dieta Dukan, sono dimagrito sette chili in meno di un mese, ho picchiato un buon numero di persone e ho compreso finalmente la questione dei consumi, del capitalismo e della sua fragilità

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Anch’io ho fatto la dieta Dukan. Ho mangiato soltanto proteine per tre giorni (si chiama «fase d’attacco»), e in seguito un giorno proteine e verdura e un altro solo proteine, fino al raggiungimento del peso suggerito. Alla fine, ho perso sette chili, e sono molto soddisfatto della dieta. Soprattutto perché ho anche imparato una serie di cose. Prima di tutto, il corpo ha bisogno di rigatoni e Oro Saiwa molto di più di quanto si possa immaginare. La notte non sognavo altro. Sognavo anche Scarlett Johansson, ma ho scoperto che il corpo e la mente umana possono fare a meno di Scarlett, ma non degli Oro Saiwa. Scoperta piuttosto interessante, e in qualche modo confortante.
Poi, ho capito in modo più preciso perché le tigri e i leoni sono così aggressivi. In pratica, anche loro fanno la Dukan. In modo estremo, oltretutto, nel senso che praticano la fase di attacco (che negli esseri umani varia da tre a cinque giorni) per tutta la vita. L’ho capito perché nei giorni della dieta sono diventato una persona estremamente aggressiva. Le energie molto attive delle proteine sono bilanciate da carboidrati e zuccheri che rendono più paciosi e sonnolenti. Ma se le lasci agire da sole, sono incontrollabili. Ho mandato a quel paese, urlando, una enorme quantità di persone, e la dieta è finita in tempo utile per non perdere tutti i lavori che mi ero procurato. Per l’intera giornata in cui ingurgiti proteine, non hai altro desiderio che picchiare qualcuno. Una volta ho preso mio figlio, l’ho piantato contro il muro tenendolo per il bavero, gli ho urlato cose irripetibili a voce molto alta e a distanza ravvicinatissima, e se non mi avessero fermato gli avrei dato una testata in faccia. Tenete conto che mio figlio ha poco più di tre anni.
L’altra cosa che ho imparato, è ancora più sorprendente: essere così aggressivi dà una sensazione molto piacevole. Pericolosamente piacevole. Mi rendevo conto che esageravo, ma allo stesso tempo pensavo che non avrei più voluto fare ameno di tutta quella aggressività. Da allora, guardo alle tigri e ai leoni con molta simpatia, perché penso che sono sempre in quello stato euforico in cuimi sono sentito in quei giorni, pronti a scattare a qualsiasi provocazione. Li invidio un po’, ora.
Però, la differenza tra noi umani e le tigri, sia in generale sia nel caso particolare della dieta Dukan, è che noi abbiamo il frigorifero e loro no. Loro devono fare una certa fatica per procurarsi il cibo, tanto che il «National Geographic» è spinto a filmarli, mentre non ha nessun interesse a filmare noi mentre compriamo proteine al supermercato o apriamo il frigorifero per mangiarle. Dukan, che era un medico normale e ora ha assunto le sembianze di un guru (e io lo riconosco come tale), mette tutta una serie di regole, esclude il prosciutto, per esempio. Io sono arrivato a fare la sua dieta in modo del tutto consapevole: ho letto il libro, ho ponderato a lungo, emi sono reso conto che aveva due caratteristiche favorevoli: si poteva mangiare in quantità libera, anche esagerata (una sera ho cenato con sette fette di carne); e dovevo mangiare carne e pesce, che mi piacciono moltissimo. Prima di cominciare, non avrei mai sospettato che a un certo punto sarei quasi svenuto davanti a un pacco di Gentilini.
La dieta Dukan si può praticare in due modi: o iscrivendosi al sito e seguendo i consigli e le ricette, che sono straordinarie perché trasformano le proteine in cioccolata, soufflé, amatriciana e fritto misto (tutto all’apparenza, credo, ma l’apparenza è sufficiente nella quasi totalità dei casi della vita); in questo caso si dedica l’intera giornata alla Dukan, diventa una specie di professione, ed è bene prendersi tutte le ferie messe da parte per l’estate. Questo modo di fare la dieta, il più giusto e il più sano, è praticato al massimo dal dieci per cento delle persone che fanno la Dukan — percentuale che tende a scendere giorno dopo giorno. La stragrande maggioranza di coloro che fanno la Dukan (e di questi ho fatto parte senza nessuna esitazione) tende a sopravvivere alla giornata, arrivando a sera avendo ingurgitato quante più proteine possibili, cercando di non venir meno alla regola e di non picchiare troppe persone. Cioè, continuando a vivere la vita che si viveva prima della dieta.
Se si sceglie di fare la dieta Dukan in questo modo, si sceglie, più o meno consapevolmente, di far ruotare tutto intorno alla bresaola. Poiché Dukan ti dice che puoi mangiare ogni volta che hai fame, e poiché ogni volta che decidi di fare la dieta automaticamente provi dei morsi della fame incontenibili (mi dicevano: è un fatto psicologico, ma non capivo: che differenza fa se uno ha fame per esigenza dello stomaco o per un fatto psicologico?), il gesto che i dukaniani si trovano a fare durante la giornata più volte è aprire il frigorifero, sollevare la carta unta che contiene vari chili di bresaola, strapparne delle fette in strati compatti in modo incurante e ficcarle in bocca. Questo, ogni giornomolte volte, e per tutto il periodo della Dukan. La bresaola è il cibo più giusto per la Dukan, perché se ne può mangiare quanta se ne vuole e bisogna solo aprire il frigorifero e farlo. Costa poca fatica, ti sfama, è innocua.
E mentre aprivo di continuo il frigorifero, ho cominciato a comprendere che stavo sperimentando qualcosa di più grosso della dieta, della somiglianza con le tigri, e della improvvisa obbedienza atterrita di mio figlio. In pratica, facendo la dieta Dukan, sono dimagrito sette chili in meno di un mese, ho picchiato un buon numero di persone che in fondo andavano picchiate, e ho compreso finalmente la questione dei consumi, del capitalismo e della sua fragilità. Insomma, ho finalmente sperimentato nella pratica quotidiana cosa significa in materia economica quella che viene chiamata «la bolla speculativa».
Perché mi sono reso conto che, essendo la dieta Dukan scoppiata come una moda in pochimesi, la bresaola deve aver avuto, per forza di cose, un’impennata di vendite stratosferica. E sì, perché se prendete la bresaola come simbolo del desiderio di un periodo — e potete sostituirla con tutti gli oggetti e i desideri dagli anni Ottanta ad oggi — potete comprendere la storia economica contemporanea in pochi passi.
Dovete immaginare che il nostro consumo smisurato di bresaola ha accresciuto la domanda in modo esponenziale. Al supermercato ci siamo ritrovati in tanti, all’improvviso, a fare una collettiva e ininterrotta richiesta di bresaola. Il supermercato ha trasferito la nostra domanda al produttore, che fino a quel momento confezionava il necessario per la popolazione, e si è ritrovato davanti a una richiesta talmente gigantesca che ha dovuto mettere mano al portafogli e investire a più non posso: comprare altri animali, altri impianti e spazi di produzione; e, ovviamente, ha dovuto assumere una grande quantità di gente.
Non c’è dubbio che sia accaduto questo, da qualche parte, a causa di quel gesto inconsulto e nervoso che tutti noi contemporaneamente abbiamo fatto, di aprire il frigorifero e strappare grandi pezzi di bresaola per tenere fede ai suggerimenti e alle regole della Dukan. E non basta: tutto il mondo che ruota intorno alla bresaola, dal produttore al venditore al dettaglio, fino ai nuovi assunti, hanno per forza di cose allargato all’improvviso la misura del loro benessere, e hanno cominciato a spendere. Ognuno nelle proporzioni che poteva permettersi. Proprio come i grandi economisti spingono a fare quando parlano di crescita. Creare mercato, assumere lavoratori, creare tempo libero e far spendere soldi. Così il denaro gira e la vita economica diventa virtuosa. La ricchezza, cioè, anche se parte dal mondo della bresaola, si diffonde anche agli altri. Un lavoratore viene assunto dal produttore di bresaola, prende uno stipendio a fine mese, ci paga le spese fisse e con quello che rimane va al ristorante, compra degli orecchini. E così, grazie alla mia dieta Dukan e al mio uso selvaggio della bresaola, il ristoratore e il gioielliere fanno affari, l’economia si muove. È successo senz’altro così. Sta accadendo senz’altro così. L’economia mondiale, grazie alla pigrizia mentale degli esseri umani a dieta, è viva.
Tutto qui? No. Ci sono due conseguenze, anch’esse naturali. La prima è che la dieta Dukan, come tutte le diete, è a termine. Ed essendo una dieta efficace, è a termine per davvero. Cioè, quando si raggiunge il limite, ci si ferma. La macchina che avete smosso, ha un termine. Si può dire: va bene, smetti tu, ma continua un altro. Rispondo: certo. Ma gli esseri umani che devono perdere peso sono tanti, ma non tantissimi. Tantissimi, ma non infiniti. Aggiungiamoci pure tutti coloro che si sono arricchiti negli ultimi tempi in conseguenza della fatturazione altissima della bresaola, e sono ingrassati beatamente, e quindi hanno cominciato anche loro a fare uso smodato di bresaola. Ma anche loro dimagriranno e il circolo virtuoso si sgonfierà.
In più, c’è la seconda questione, più grave e definitiva, che ho indagato personalmente per capire se era un problema mio oppure se era condiviso dagli altri praticanti della Dukan. Risultato: è condiviso con forza dal cento per cento delle persone con le quali mi sono confrontato. Tutti abbiamo fatto lo stesso giuramento: mai più nella nostra vita mangeremo una sola fetta di bresaola.
Anzi, la parola «bresaola» ci causa scompensi psicologici notevoli, e giramenti di stomaco tali che soltanto gli astronauti partiti per la luna possono comprendere. Tutti noi abbiamo giurato: mai più bresaola. Cioè, è successo che proprio il larghissimo consumo, smodato e irrefrenabile, di bresaola, ha comportato la saturazione definitiva.
Quindi, da un giorno all’altro, dai supermercati telefoneranno ai produttori e diranno: ne vogliamo un quarto, un decimo, anzi niente, non la compriamo più. I produttori hanno comprato migliaia di animali, hanno aperto tanti nuovi siti di produzione, hanno assunto tantissimi lavoranti. E all’improvviso si ritrovano sul groppone tutto questo, perché quello che vendono, nessuno lo desidera più. E così tutte le altre attività che si erano avvantaggiate della ricchezza derivante dalla bresaola: aveva prodotto soldi, cibo, attivato mutui e rateazioni, e adesso tutti quelli che hanno partecipato, si ritroveranno senza lavoro. Tutto quello che ha procurato ricchezza, adesso procurerà una improvvisa e ineluttabile povertà diffusa.
Quando ho cominciato a fare la Dukan, non avrei mai immaginato di far parte — di causare tutto questo. Puntavo ad arrivare a sera senza aver toccato un biscotto. Per farlo, aprivo il frigorifero, scartavo la bresaola e la strappavo come una bestia. Sono dimagrito. Mi sento bene, addirittura mi sento piuttosto carino, grazie ai complimenti chemi fanno; perché come tutte le persone che dimagriscono, poi nei mesi successivi importa soltanto che la persona che ti incontra, ti dica: ma che hai fatto, sei dimagrito tantissimo. E a me lo dicono. Però, senza saperlo, ho fatto un danno economico globale di non poco conto.
Francesco Piccolo da il club della lettura - corriere.it

sabato 24 marzo 2012

Cina 2012-street food

Vapore, vapore,vapore

Involtini primavera

Frutta caramellata

Carne affumicata

Bachi da seta, serpenti d'acqua, frutta fresca...

Noodle, carne e verdure

C'è posto migliore dove appendere il pesce?

Stelle marine, ricci e non so bene cos'altro!

Ancora vapore...

giovedì 22 marzo 2012

Giornata mondiale dell'acqua

L'acqua è di tutti!
Progetto di Manolo Benvenuti, Claudio Ballestracci, Giulio Accettulli 
in collaborazione con Marco Mantovani.
Festival "Art et eau", Périgueux (Francia)

martedì 20 marzo 2012

lunedì 19 marzo 2012

giovedì 15 marzo 2012

e allora le foibe?




Caterina Guzzanti
Vichi di Casa Pound
da Un due tre stella del 14/03/2012

domenica 11 marzo 2012

Aspettando il 25 aprile...

Enrico Farnedi - Vendemmia
canzone scritta per la compilation "ADDOSSO!" (2011 - Ribéss Records), dedicata ai 150 anni dell'Unità d'Italia e alla Resistenza a cura di A.N.P.I. Santarcangelo di Rimini

martedì 6 marzo 2012

Cina 2012-Transport

Beijing - tuktuk

Beijing - metropolitana

Hong Kong - tram

Pingyao - tuktuk

Guilin - bamboo boat

lunedì 5 marzo 2012

Cina 2012-Food

Beijing - damplins e chrysanthemum tea

Dintorni di Pingyao - direttamente dalla traduzione del menù: sauted sliced porc, fried potato ball, fried wild-eaten hen's eggs

Guilin - verticale di damplins
Sul treno per Jingbian - noodle istantanei

Jingbian - montone


lunedì 20 febbraio 2012

Cina e cinesi...

Cosa abbiamo imparato della Cina e dei cinesi (in ordine sparso):

-sono tanti... 



-sono curiosi, molto curiosi e niente affatto discreti 

le carte sono un'attrazione irresistibile. prima uno

poi cinque


poi nove...

-guidano in maniera caotica e pericolosa, anche se lentamente. Non rispettano minimamente le strisce pedonali, le precedenze i semafori, in poche parole infrangono l’intero codice stradale ogni volta che si muovono!

-mangiano a ogni ora, in ogni luogo e quasi di tutto

uova marinate
o zampette di pollo da sgranocchiare in treno






















-le leggi della fisica non valgono per i carichi delle loro biciclette























-sputano ovunque anche se sputare non solo non è polite, ma è vietato 
















-i bambini hanno i pantaloni aperti sul sedere, sempre pronti per ogni evenienza!

pantaloni sempre aperti...
-spazzano le strade, ma anche le autostrade (!), con scopette di piume o, al limite, di ramoscelli

 
-quando cerchiamo di comunicare, la maggioranza ci guarda come se fossimo alieni: non parlano inglese e non sono per nulla intuitivi e elastici (almeno quelli che abbiamo incontrato noi!)
-sui treni vendono tovagliette, giochi, ma anche corsi di matematica con tanto di dimostrazione pratica
-il servizio igienico-sanitario è da ripensare…

per favore, non buttate la carta igienica nel wc...
-fumano come turchi (wow, siamo riusciti a esprimere uno stereotipo con uno stereotipo!!!)

fumo fumo fumo
 -nei luoghi pubblici (alberghi, ristoranti…) lavorano con i piumini addosso poiché pur essendo inverno le porte sono spalancate e non accendendo il riscaldamento congelano assieme ai loro clienti!

-contano con una mano sola

è chiaro no? dobbiamo prendere l'autobus n. 6!