lunedì 29 aprile 2013

Si è spento ieri sera, 28 aprile, nella sua casa di via Aponia, all'età di 95 anni, il professor Umberto Panozzo. Era nato il 18 gennaio 1918 a San Giovanni in Marignano. Aveva frequentato il Liceo classico in Arezzo, quindi la Facoltà di Lettere presso l'Università di Firenze, dove aveva avuto maestri d'eccezione quali il Momogliano, il Lamanna, il Devoto, il Pasquali, il Giannelli... L'8 giugno 1940 si laureò con una tesi sul Carducci con il prof. De Robertis, che aveva sostituito il Momigliano epurato in seguito alle leggi antiebraiche.

Il 10 giugno, chiamato alle armi, raggiunse quale ufficiale – aveva frequentato il Corso allievi ufficiali di complemento negli ultimi anni dell'università - l'87° Reggimento Fanteria, Divisone “Friuli”, già inviato al fronte, in Piemonte. Fu congedato nel gennaio '45 e, in seguito, gli venne conferita la Croce al merito di guerra.

Finalmente, dopo 5 anni, potè tornare ai suoi studi e dedicarsi all'attività didattica. Iniziò ad insegnare presso il Liceo classico di Arezzo ('45-'47); nel '48, trasferitosi a Rimini, aveva ottenuto un incarico presso il Liceo scientifico e, l'anno successivo, vinse la cattedra di materie letterarie presso la scuola media di Riccione.

Seguì il trasferimento alla scuola media “Panzini” di Rimini, di cui fu preside incaricato per un biennio, quindi, nel '67 passò alle scuole superiori, dove insegnò italiano e storia, prima all'Istituto Magistrale, quindi all'ITIS e infine al Tecnico Commerciale “Valturio”.

prof. Umberto Panozzo

Insegnante preparato, rigoroso, burbero all'apparenza, ma appassionato alla sua professione e sempre attento alle esigenze degli alunni, ha lascianto un vivo ricordo in molte generazioni di studenti riminesi.

All'insegnamento ha costantemente affiancato l'attività di autore di testi letterari, linguistici e di didattica, frutto di studi approfonditi, di esperienza sul campo e soprattutto di un'esigenza interiore di offrire ai giovani libri seri, rigorosi, ma al tempo stesso, semplici nello stile e nella forma.

Nel 1945 pubblicò la sua prima opera, /Avviamento alla critica letteraria/, alla quale sono seguite negli anni decine e decine di altre opere pubblicate dai principali editori del settore (Le Monnier, La Nuova Italia, Paravia, D'Anna). Particolarmente significative la /Grammatica italiana /per le scuole superiori e inferiori e /La Storia della Letteratura italiana/per le scuole medie superiori.

Nel 1981 ha fondato a Rimini, col figlio Massimo, una propria casa editrice, Panozzo Editore, di cui è stato direttore editoriale per molti anni. 

mio nonno Umberto

martedì 5 febbraio 2013

Una giornata normale

Una giornata 'normale' che ora acquista un valore particolare... mi sembra tutto così irreale...
Grazie Chiara per averci mandato questa foto, ricordo di un giorno sereno insieme.
Luciano, ci manchi

mercoledì 16 gennaio 2013

Che la terra ti sia finalmente lieve

Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all’ orecchio degli amanti.
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

Alda Merini

Resta la rabbia per non aver capito

martedì 4 dicembre 2012

Le ragioni dell'altro

Le ragioni dell’altro nel conflitto israelo-palestinese 

Luciano Trincia - 4 December 2012  
 
Se fossi il padre di un bambino palestinese di Ramallah avrei ancora negli occhi le immagini dei bombardamenti su Gaza di due settimane fa. Penserei alla mia gente, costretta per secoli dai Turchi, affidata senza possibilità di replica al Mandato britannico sulla Palestina, illusa dalle promesse fatte agli Arabi dalle potenze coloniali di un riconoscimento all'autodeterminazione e all'indipendenza in cambio della loro partecipazione agli sforzi bellici anti-ottomani. Mi tornerebbe alla mente il massacro del villaggio arabo di Deir Yassin del 9 aprile 1948 ad opera di membri del gruppo sionista “Irgun Zvai Leumi” del futuro Primo ministro israeliano Menachem Begin. Addosserei la responsabilità del fallimento della transizione proposta dalla potenza mandataria cui era stato assegnato il governo della regione a gruppi estremisti come “Lohamei Herut Israel”, quelli che i britannici chiamavano la “Banda Stern”, ai loro attentati, alla loro violenza terrorista. Farei risalire alla Guerra dei Sei Giorni del 1967 la definitiva negazione del diritto degli Arabi di Palestina a vivere nel proprio Stato. Condannerei la pulizia etnica degli Arabi palestinesi e l’allontanamento forzato dei profughi dalle loro case, dai loro villaggi sotto la spinta dei carri armati Magach israeliani.  Se fossi il padre di un bambino palestinese di Ramallah penserei alle pietre della prima Intifada e ai Tavor TAR 21, i moderni fucili d’assalto delle Forze di Difesa Israeliane. Griderei forte al mondo che nei territori occupati, a Gaza e in Cisgiordania, Israele non ha mai concordato nulla con la popolazione araba, che la politica colonica è sempre stata imposta dalla forza militare, che nei territori Israele ha operato con il suo servizio di intelligence militare (Aman) per definire gli obiettivi delle “ticking bombs” mirate contro i capi del mio popolo. Avrei sempre in mente il terrore dell’operazione “Piombo fuso” del dicembre 2008, quella massiccia offensiva aerea e terrestre israeliana costata in poche settimane oltre 1300 morti fra i palestinesi, a fronte di 28 vittime fra i civili israeliani in otto anni. Additerei come unici responsabili della rottura dei negoziati di pace fra Israeliani e Palestinesi nel settembre 2010 il premier Benjamin Netanyahu e il suo ministro degli esteri Avigdor Lieberman, da sempre contrari al processo di pace avviato a Oslo. Se fossi il padre di un bambino palestinese di Ramallah direi a mio figlio che la condizione di vita attuale dei Palestinesi nei territori occupati, esuli e profughi nella loro stessa terra sotto un’occupazione militare straniera, è intollerabile agli occhi di qualunque persona che conosca la realtà di questa terra e abbia un minimo di obiettività.  Se fossi il padre di una bambina israeliana di Tel Aviv vivrei nel terrore ogni volta che mia figlia sale su un autobus. Porterei sulla pelle la storia del mio popolo, ovunque segnato da diaspore e discriminazioni, eterna minoranza in Stati non propri, colpito dai pogrom, decimato dall’Olocausto. Non dormirei la notte pensando ai lanci indiscriminati di razzi Qassam contro le città di Sderot e Ashkelon da parte del Movimento della resistenza islamica Hamas di Ismail Haniyeh e Salam Fayyad. Sarei convinto che oggi Abu Mazen non sia capace di controllare neppure la Cisgiordania e che i Palestinesi, lasciati a sé stessi, non siano in grado di governare un proprio Stato indipendente. Vedrei la vittoria elettorale di Hamas e la sua presa di potere a Gaza dopo il ritiro israeliano come un minaccioso anticipo di quanto potrebbe accadere su scala più vasta in caso di un nostro ritiro dalla Cisgiordania. Urlerei al mondo che adesso a Gaza governa un Movimento come Hamas, che non vuole affatto uno "Stato palestinese", ma semplicemente la cancellazione di Israele. Ricorderei che fu il rifiuto degli Arabi al Piano di partizione della Palestina nel novembre 1947 a scatenare prima le violenze e poi la guerra arabo-israeliana del 1948 e che in conseguenza di quel conflitto 600.000 ebrei furono espulsi dai Paesi arabi confinanti.  Se fossi il padre di una bambina israeliana di Tel Aviv riterrei prioritario il diritto alla sicurezza del mio Paese, assediato dalle frange palestinesi più radicali appoggiate dall’Iran di Mahmud Ahmadinejad. Osserverei preoccupato il crescendo di dichiarazioni minacciose contro Israele, alimentate dalla seconda Intifada del 2000, dal sostegno siriano e iraniano a Hezbollah e a Hamas, dalla guerra in Libano dell’estate 2006, dall’allarme suscitato dal programma nucleare dell’Iran. Vedrei crescere e allargarsi le minacce militari e quelle terroristiche contro l’ebraicità d’Israele, in una regione come quella mediorientale che dal marzo 2011, con la crisi siriana, è diventata una vera e proprio polveriera sul punto di esplodere. Ricorderei che il Movimento della resistenza islamica Hamas si è sempre schierato contro il processo di pace avviato con gli Accordi di Oslo del 1993 e che oggi viene considerato ufficialmente un’organizzazione terroristica non solo da Israele, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea e un potenziale nemico alla stabilità dell’intera regione. Sarei favorevole alla costruzione di nuovi insediamenti nei territori a Est di Gerusalemme e in Cisgiordania annunciata dal governo del mio Paese dopo la risoluzione Onu del 29 novembre scorso e giudicherei i nostri insediamenti e la barriera di sicurezza l’unico mezzo sicuro per impedire infiltrazioni terroristiche in Israele e per proteggere i coloni. Se fossi il padre di una bambina israeliana di Tel Aviv chiederei al mio governo di adottare tutte le misure necessarie per garantire le due priorità che David Ben Gurion aveva assegnato allo Stato ebraico, la sicurezza interna e la pace con i vicini.  Se fossi un uomo, poco importa se arabo o israeliano, che guarda a un futuro di coesistenza pacifica e vuole disegnare un orizzonte di pace dove far crescere i propri figli, osserverei con occhi diversi la storia rispettiva di sofferenze e ingiustizie patite e avrei ben presente che queste risalgono indietro nei secoli da ambo le parti. Rigetterei ogni forma di fanatismo e coltiverei la speranza che da una parte e dall’altra emergano quanto prima uomini politici che riescano a conquistare i cuori e le menti dei rispettivi popoli e degli avversari a un credibile progetto di pace e di collaborazione, indispensabile per condividere un territorio limitato con scarse risorse naturali. Leggerei i giornali del mio paese, ma proverei a confrontarmi anche con le notizie diffuse da altri organi di stampa, nella convinzione che il pluralismo mediatico offra un’immagine meno parziale della complessa realtà della regione dove vivo. Contrasterei però azioni di propaganda mediatica elusiva o volutamente ingannevole, intentate dalla mia parte o dall’altra sulle sofferenze di vittime innocenti. Sarei disposto a ascoltare le ragioni dell’altro, senza per questo rinunciare alle mie, nella convinzione che le vittime, da qualsiasi parte vengano hanno la memoria lunga. Parlerei con chi la pensa come me, ma cercherei anche il dialogo e il confronto con chi ha opinioni diverse, al di fuori della cerchia ristretta di accoliti, militanti, affiliati, adepti nella quale mi muovo. Rafforzerei la determinazione a uscire da un passato di discriminazioni e persecuzioni reciproche, chiedendo ai responsabili del mio popolo, siano essi arabi o israeliani, di rilanciare immediatamente il processo di pace sul principio “Due popoli, due Stati”. Mi unirei a quanti, e sono tanti, sia a Tel Aviv che a Ramallah credono che costruire la pace significa rinunciare definitivamente a una visione unilaterale dei propri diritti, lungamente coltivata e continuamente alimentata dalla mobilitazione emotiva e propagandistica di un conflitto ormai più che sessantennale.  Se fossi un uomo, poco importa se arabo o israeliano, che guarda a un futuro di coesistenza pacifica cercherei di far comprendere alla mia gente che la vera discriminante passa all’interno dei due campi, delle due società e delle rispettive forze politiche, che il partito da prendere non è fra Israeliani e Palestinesi, ma fra chi in un campo e nell’altro lavora per la pace e chi opera, più o meno consapevolmente, per la continuazione del conflitto. Sarei convinto che i due Stati devono coesistere e rispettarsi senza affermare la priorità di uno Stato sull’altro, accettando da una parte l’impraticabilità del sogno biblico del “Grande Israele”, che si traduce in termini politici nel diritto storico-biblico a insediarsi ovunque in Eretz Israel, e rinunciando dall’altra all’obiettivo massimalista della negazione dell’altro e all’illusione di poter ribaltare la forza dell’avversario con una contrapposta violenza, confondendo così resistenza e terrorismo. Sarei consapevole che per rendere possibile l'impossibile occorre un salto di mentalità: una nuova generazione israeliana e palestinese educata alla convivenza, perché possa radicarsi un abito mentale diverso nei confronti dell’ex nemico. Perché, come sostiene Amos Oz, un conflitto comincia e finisce non sulla sommità delle colline, ma nei cuori e nella mente delle persone. Questo salto di mentalità può sembrare oggi un obiettivo lontano, difficile, ad alcuni forse illusorio. Ma se non si lavora per costruirlo soltanto perché non lo si crede possibile, di certo non si produrrà da solo. 

venerdì 19 ottobre 2012

Razzisti si nasce o si diventa?

Razzisti non si nasce, ma si diventa
(solo dopo i 14 anni)

Lo studio americano sui bambini: non vi è alcuna differenza nel cervello quando si incontrano persone diverse

di 

MILANO – Non nasciamo razzisti, né lo diventiamo nei nostri primi anni di vita. Anzi, da piccoli, davanti a persone dal colore della pelle diverso dal nostro, non abbiamo alcun sussulto, emozionale o razionale, e tantomeno avvertiamo paura, timore, rabbia o aggressività. A dimostrare che il razzismo non è nella nostra natura infantile ha lavorato un team di ricercatori in neuroscienze della University of California, sede di Los Angeles: come è accaduto in passato per studi di questo genere, ha usato lo strumento della risonanza magnetica per verificare quali cambiamenti intervenivano nell’area cerebrale di chi si è sottoposto al test. Questa ricerca si inserisce nel dibattito, molto acceso e datato, sulle origini del razzismo che negli anni ha visto confrontarsi almeno due teorie opposte: la prima che legava questo sentimento alla socializzazione, la seconda che invece tendeva a mostrare come la xenofobia sia innata in ognuno di noi.
BAMBINI DEL MONDO – E proprio a convertire questo secondo pensiero – che il razzismo sia dentro di noi – arriva la ricerca di Eva Telzer e di 3 colleghi della Ucla, appena pubblicata sul Journal of Cognitive Neuroscience. L’analisi ha riguardato 32 bambini americani, tra i 4 e i 16 anni di età. Tra loro variavano le origini razziali: ve ne erano con antenati europei, asiatici, africani. I giovani sono stati sottoposti a imaging a risonanza magnetica (MRI) nel momento in cui visionavano un catalogo fotografico, composto da immagini di persone dal colore della pelle uguale e poi differente dal loro.
NESSUN SUSSULTO – Davanti alle foto di persone diverse da sé, i bambini non hanno mostrato attività cerebrali diverse rispetto al normale. E questo è avvenuto per tutti i bambini, fino all’età dei 14 anni. In particolare, è stato analizzato il comportamento dell’amigdala, quell’area del cervello che fa da centro di integrazione ai processi neurologici superiori come le emozioni, per esempio regolando la paura. Nei casi analizzati dai ricercatori americani, questa parte cerebrale non subiva modifiche. Mentre in passato, altre ricerche sulla popolazione adulta avevano mostrato come i pazienti sottoposti a risonanza magnetica avessero sussulti e modifiche percettibili della stessa amigdala, motivo che aveva spinto a collegare il sentimento xenofobo alle proprie innate peculiarità personali.
DOPO I 14 – Dalla ricerca emergono comunque due dati interessanti: il primo è che dopo i 14 anni di età, invece, proprio come è avvenuto nelle ricerche passate sulla popolazione adulta, qualche variazione della amigdala esiste davanti al «diverso da sé», e la seconda è che, da questa età in avanti, cambiano completamente le reazioni a seconda della propria origine razziale e geografica. Infatti, i giovani che provenivano da famiglie miste, o con antenati di altre etnie, non mostravano alcun segno di razzismo (inteso proprio come il riconoscere qualcosa di altro da sé), mentre per chi proveniva da una razza precisa, senza incroci con etnie di altri Paesi, il vedere foto anche di persone dalle stesse origini causava un sentimento o un’emozione registrata dalla amigdala.

tratto da Corriere.it

lunedì 1 ottobre 2012

Farò del mio meglio...
Ciao mio caro Amico Shlomo
Mi manchi già
Francesca