sabato 22 agosto 2009

voce di romagna 20 agosto 2009


Sarà per l’indole bonaria e comprensiva che si suole attribuire ai suoi abitanti, o per capacità di mantenersi in equilibrio tra umanitarismo e opportunismo, o semplicemente la sua posizione geografica, un trampolino che dal cuore dell’Europa si protende nel bacino del Mediterraneo o viceversa, ma l’Italia è da sempre considerata terra di passaggio e approdo, di transito e accoglienza.
Lo è oggi per le migliaia di disperati che sbarcano sulle sue spiagge provenienti dalle coste africane: sfidano il mare su mezzi di fortuna sovraccarichi e malandati in cerca di una possibilità per rifarsi una vita, in Italia o, attraversata questa, in Europa.
Lo era sessanta e più anni fa, quando, al termine della Seconda guerra mondiale, centinaia di Ebrei cominciarono a riversarsi all’interno dei nostri confini. La maggior parte di questi era sopravvissuta alle persecuzioni, ai rastrellamenti, ai campi di concentramento e di sterminio nazisti; deportati dalla Polonia piuttosto che dai paesi dell’ex Unione Sovietica, durante la Shoah avevano perso la famiglia, gli affetti e tutti i propri averi. A molti la sola idea di tornare nel proprio paese d’origine, un paese che li aveva traditi, che nonostante tutto continuava a non volerli perché ebrei e in cui non avevano né una casa da abitare, né una persona a cui ricongiungersi, pareva assurda. Rinchiusi dagli Angloamericani in campi per Displaced Persons in Germania e in Austria, questi uomini, queste donne, questi bambini guardavano alla Palestina come alla terra della rinascita e all’Italia come ponte per raggiungerla. È Yoel che ci racconta questa storia di disperazione e speranza. Classe 1922, un numero di matricola tatuato sul braccio sinistro a ricordare in maniera indelebile l’esperienza della deportazione, ci aspetta a piedi nudi sulla soglia della sua abitazione, ci stringe la mano con forza e comincia a parlare prima ancora di raggiungere il salotto. Al suo ritorno in Italia, dopo un intero anno passato nel campo di sterminio di Auschwitz, dice, il suo unico desiderio è ricominciare da capo e aiutare altri a farlo. La scelta della Palestina come luogo per ricominciare non viene da sé, ma pian piano, grazie agli insegnamenti, alle spiegazioni e all’entusiasmo dei soldati palestinesi (Ebrei residenti in Palestina) che, arrivati in Italia a seguito dell’esercito inglese, aiutano le Comunità Ebraiche a ricostituirsi. Lo Stato d’Israele infatti, all’inizio del 1946, ancora non esiste, la Palestina è un protettorato britannico e il numero degli ingressi nel paese è rigidamente contingentato. In breve tempo viene impiantata in Italia, con la connivenza del governo italiano che molto spesso fa solo finta di non vedere quello che sta succedendo nel paese, un’organizzazione segreta, il Mossad le aliyah bet, con lo scopo di aiutare gli Ebrei ad immigrare illegalmente in Palestina.
Sono anni di lavoro frenetico ci spiega Yoel. Quelle che arrivano in Italia sono persone che hanno solo quel poco che hanno addosso: vanno smistate, sfamate e alloggiate in attesa di essere imbarcate. Centro nevralgico delle attività dell’aliyah bet è la sede provvisoria della Comunità Ebraica di Milano, al 5 di via dell’Unione. Qui i profughi, tra la diffidenza dei Milanesi che non sanno con precisione cosa succeda all’interno di palazzo Odescalchi, vengono registrati e trovano un primo posto per dormire: nelle grandi sale, nei corridoi, sulle scale.
All’interno dall’Agenzia ebraica per l’immigrazione clandestina, il compito di Yoel è quello di trovare le navi adatte a trasportare un alto numero di persone dall’Italia fino in Palestina e qualcuno a cui intestarle. Lui stesso, appena ventiquattrenne, diventa armatore di una nave per la quale a distanza di anni lo Stato italiano gli chiederà di pagare migliaia e migliaia di lire di tasse!
Una volta acquistate, le navi vengono portate a Porto Venere, piuttosto che a Bocca di Magra, dove Italiani ed Ebrei palestinesi lavorano insieme, in fretta e in gran segreto per modificarne le stive e ricavarne quante più file di cuccette possibili. Nascosti e stipati, allora come oggi, nei ventri di questi mezzi di fortuna centinaia di uomini intraprendono il viaggio attraverso il Mediterraneo e tentano di raggiungere il porto di Haifa.
Gli Inglesi intercettano e rimorchiano molte imbarcazioni sulla rotta palestinese. I passeggeri vengono rinchiusi per mesi in appositi campi a Cipro, in attesa di rientrare nelle quote di immigrazione.
Tra la fine della guerra e la fondazione dello Stato d’Israele, conclude Yoel, 33 navi, non meno di 23.000 persone, salpano da diversi punti dalle coste italiane verso la Terra Promessa.
fpunto@hotmail.it

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