giovedì 16 luglio 2009

Voce Romagna 16 luglio 09

I sogni non passano in eredità













Il kibbutz è uno dei simboli di Israele, come la stella di Davide della sua bandiera o la menorah, il candelabro a sette bracci raffigurato nello stemma dello Stato affiancato da due ramoscelli d’ulivo. Non appena il lavoro ce lo permette, ci mettiamo in viaggio per la nostra prima trasferta e accettiamo l’invito di Israel di andare a trovarlo a Ruhama, curiosi di conoscere la realtà di un kibbutz.
Ruhama si trova dove comincia il deserto del Negev, non lontano da Sderot, a poco meno di un minuto dai missili kassam (Gaza è a circa 25 km in linea d’aria).
Israel ci aspetta alla fermata del 446, ci stringe forte la mano e ci dà il benvenuto. Indossa abiti chiari, cappello e sandali, ha la pelle abbronzata dal sole, sembra un ragazzino anche se è nato nel ’27. Saliamo in macchina, cominciano i racconti: la strada che stiamo percorrendo, dice, dieci anni fa non esisteva e per arrivare a Ruhama bisognava fare un ampio giro. Noi invece, dopo appena una decina di km, arriviamo all’entrata del kibbutz, basta avvicinare il cellulare a un sensore e il cancello si apre.
Mentre sbrighiamo le pratiche burocratiche, Israel ne approfitta per riconsegnare la macchina, poiché, ci spiega, non appartiene a lui, ma al kibbutz. Pochi minuti dopo, nel salotto del suo alloggio, ci racconta la storia di questa collettività basata su poche regole condivise: l’uguaglianza dei suoi membri e il lavoro, soprattutto agricolo.
Il primo insediamento a Ruhama è datato 1911, quando un gruppo di Ebrei russi compra dai Beduini 500 ettari di terra sabbiosa e scava un pozzo alla ricerca dell’acqua, ma la fondazione del kibbutz risale al 1944 da parte di Ebrei polacchi e rumeni.
I primi italiani, tra cui Israel e sua moglie, arrivano nel ’49, dopo la nascita dello Stato. Sono tutti giovani tra i 21 e i 25 anni, provengono da famiglie medio-borghesi dell’Italia centro-settentrionale, ma hanno deciso di abbandonare gli studi di medicina, piuttosto che di giurisprudenza, per venire a fare i contadini in Israele. Altri li seguiranno nel 1950 e ’51. Sono spinti dalla delusione provocata in loro dalla pur tanto amata Italia che con la proclamazione delle leggi antiebraiche ha infranto il patto risorgimentale con la parte mosaica dei suoi cittadini e dal tradimento della società borghese in cui sono nati e sono stati educati e dalla volontà di creare una società nuova di tipo socialista in cui essere uguali agli altri. Prima di partire hanno frequentato un anno di preparazione in una hachsharah (scuola di formazione per la gioventù ebraica) vicino a Pisa, dove, per la prima volta, hanno sperimentato la vita in comune, dove i fattori del luogo hanno cercato di insegnargli a zappare la terra e ad allevare pulcini e i madrihim (istruttori) venuti da Israele li hanno aiutati a familiarizzare con l’ebraico e con qualche nozione di storia e geografia della Palestina. I genitori hanno faticato a capire la decisione dei loro figli, anche se non hanno cercato di ostacolarli.
A Ruhama, anche i giovani italiani, uomini e donne, coltivano il grano, i girasoli e le patate, accudiscono le pecore e si prendono cura dell’aranceto. Le loro case sono poco più che baracche di legno senza servizi, i pasti sono consumati in comune in una grande sala al centro del kibbutz che il sabato sera serve a riunire i haverim (compagni) intenti a prendere le decisioni che riguardano la collettività sotto la bandiera rossa con martello, spada e spiga di grano. Il kibbutz è responsabile della comunità che lo forma, si occupa della sua istruzione fino all’università (per un numero limitato di membri è compresa l’istruzione anche a livello universitario), della sua salute, così come dei suoi svaghi, vacanze comprese. I bambini abitano tutti assieme in apposite casine, divisi per fasce d’età e ritornano dai genitori quattro ore nel pomeriggio, quando questi hanno finito di lavorare e prima di cena.
Proprio dalla casa dei bambini, ci spiega Israel, alla fine degli anni ’70, l’organizzazione del kibbutz ha cominciato ad essere rivoluzionata ed il modello originale a cambiare in risposta alle esigenze delle nuove generazioni che, se pur affascinati da questo stile di vita, non sono pronte a farne proprie tutte le implicazioni. Oggi a Ruhama vivono circa 180 membri della comunità, mentre un centinaio di famiglie, di cui molte costituite da figli di haverim, vivono in case in affitto all’interno del kibbutz senza esserne membri, comprando i servizi di cui hanno bisogno e che invece spettano di diritto ai kibbutznikim (membri del kibbutz). Ora i bambini, così come in tutti i kibbutzim israeliani a partire dai primi anni Novanta in concomitanza con la prima guerra del Golfo, abitano con le loro famiglie e frequentano scuole esterne al kibbutz, mentre gli asili interni offrono un servizio a pagamento. Le case sono tutte in muratura, dotate di ogni confort, dal telefono alla televisione. La grande sala da pranzo è chiusa ed è cambiata la tipologia dei servizi comunitari: se una volta era il telefono della segreteria oggi è la piscina!
Forse è vero che i sogni non passano in eredità…
fpunto@hotmail.it

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