venerdì 10 luglio 2009

Voce Romagna 9 luglio 09

Riconoscere gli ortodossi dai bottoni














I nesher, o taxi collettivi, non sono solo il modo migliore e più economico per raggiungere Gerusalemme, Tel Aviv o Haifa dall’aeroporto di Tel Aviv, ma, per chi non ha fretta e con un po’ di fortuna, sono anche un ottimo mezzo per orientarsi fra i vari sobborghi e quartieri delle città e cominciare a familiarizzare con le persone che li abitano.
Mercoledì, al nostro arrivo in Israele, siamo stati fortunati: ad aspettare i passeggeri davanti all’ingresso del “Ben Gurion Airport” c’erano numerosi nesher e nel giro di pochi minuti personaggi diversi si sono uniti a noi e hanno contribuito a completarne uno con destinazione Gerusalemme.
Il tempo di fare un rapido appello delle destinazioni e si parte, ci separano da Gerusalemme circa 50 km.
Una signora, seduta di fianco a noi, ci ricorda che le cinture di sicurezza sono obbligatorie. Deve averci sentito parlare e si rivolge a noi in un italiano stentato: è svizzera, ma trascorre in Israele almeno sei mesi l’anno perché qui abitano i suoi figli e i suoi nipoti. Come spesso si fa tra sconosciuti, prima di rituffarsi nella lettura del suo libro, commenta il vento caldo che da due giorni, dice, ha fatto alzare le temperature. Chamsin (vento che soffia dal deserto) è la prima parola in ebraico che ci insegnano.
Entriamo a Gerusalemme da Nord Ovest, percorrendo i viali che portano i nomi dei padri fondatori di questo paese. Ci accolgono agglomerati di case di pietra chiara, con i tetti carichi di cisterne per l’acqua e parabole. Lasciamo alla nostra destra i cavi di acciaio del ponte di Calatrava, evitando di entrare in città dalla sua nuovissima porta e proseguiamo verso la nostra destinazione. La prima a scendere dal taxi è proprio la signora svizzera. Il suo è un quartiere residenziale, è l’ora della chiusura delle scuole e le strade sono piene di scolari: gonne lunghe e camicie per le ragazze; pantaloni neri, talled e kipah per i ragazzi: le scuole in realtà sono finite il 30 giugno, ma quelle religiose continuano e si fermeranno solo per due settimane più avanti.
Un veloce riepilogo delle prossime tappe e si riparte.
Basta svoltare qualche angolo e il paesaggio cambia: le case si fanno più tozze e fitte e al piano terra compaiono piccole botteghe e spacci. Sui muri degli edifici all’inizio di ogni via, grandi cartelli e striscioni in ebraico e inglese, invitano i visitatori, in particolare le donne, ad adottare un abbigliamento modesto e decoroso e a mantenere un comportamento consono. Uomini e donne camminano veloci sui marciapiedi. Le donne hanno gonne che spazzano le strade, quelle sposate nascondono i capelli sotto parrucche o dentro foulard e sono attorniate da un nugolo di bambini. Gli uomini indossano pantaloni neri, camicie bianche, capelli e cappotti neri. Praticamente tutti portano la barba lunga e buffi peyot (lunghi riccioli al lato del volto). Apparentemente sembrano tutti uguali, ma il loro vestire nasconde un codice di riconoscimento che si basa su minuscole differenze: la tesa del copricapo, il numero dei bottoni della giacca o la “coda” del cappotto ne identificano la sfumatura religiosa. Il cappotto gessato bianco e nero, ad esempio, denota l’appartenenza alla corrente più estrema dell’ebraismo religioso: sono gli Ebrei che non riconoscono lo Stato d’Israele e che considerano il Sionismo un insulto alla volontà di Dio, poiché il ritorno alla Terra dei Padri è stato portato a conclusione per volontà degli uomini anziché divina. Ci guardiamo attorno affascinati e un po’ increduli: non serve che i nostri compagni di viaggio ci dicano che siamo a Mea She’arim, il quartiere ultra ortodosso. Qui il mondo si è fermato al XIX secolo, ci sembra di essere stati catapultati in uno shtetl russo, o forse in uno stereotipo contemporaneo. Non fa in tempo a richiudersi la portiera alle spalle di un uomo che ha chiesto di essere lasciato davanti ad una sinagoga del quartiere, che dal fondo del taxi arriva un commento sprezzante: “They are all penguins!”.
Siamo rimasti in sei, riprendiamo il cammino. I nomi delle strade cambiano dopo un paio di curve e assumono suoni arabeggianti. Siamo entrati a Gerusalemme Est. Il nostro tassista si sporge dal finestrino per chiedere informazioni su dove sia l’Hotel Legacy, evidentemente non conosce bene la zona. Giriamo in tondo per un po’ inseguendo un minibus bianco e azzurro che ha preso il posto degli autobus di linea israeliani di colore verde (sic!). Finalmente infiliamo Nablus Road e un altro passeggero scende. La stessa voce dall’ultima fila ci fa notare che i lati delle strade sono piene di immondizia: “Le case devono essere pulite, ma chi pensa alle parti comuni?”
Davanti a noi si profilano le mura di Gerusalemme vecchia, si avvicina il nostro turno: noi scendiamo a Jaffa gate. Il tassista borbotta qualcosa sul traffico e gentilmente un ragazzo alle nostre spalle ci traduce in romanesco le sue perplessità: no, non è un problema se ci lascia dall’altra parte della strada. Scendiamo non senza prima aver intercettato una domanda proveniente dal fondo del taxi: “Ma voi come ci siete finiti in un hotel della Città vecchia? State tranquilli: Israele non è tutta così!”.
fpunto@hotmail.it

p.s.
Chicco, perdonaci!

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